SAN GIUSEPPE PROCLAMATO PATRONO DELLA CHIESA UNIVERSALE

8 DICEMBRE 1870

 

l’8 dicembre 1870 san Giuseppe veniva proclamato “Patrono della Chiesa Cattolica” da papa Pio IX con il decreto che in latino portava come titolo “Quemadmodum Deus” (in italiano sarebbe: “Nella stessa maniera di Dio”). 

Non correvano tempi belli per il papato dopo che l’esercito italiano era entrato in Roma il 21 settembre 1870. Era la fine del potere temporale del papa e Roma sarebbe stata proclamata la capitale d’Italia. Lo stesso papa si era rifugiato nei palazzi Vaticani ritenendosi prigioniero e dichiarando invasore lo stato italiano. Una situazione che durò fino al 1929, quando si fecero i Patti Lateranensi tra Stato Italiano e Città del Vaticano. Tra l’altro nel luglio precedente si era interrotto il Concilio Vaticano Primo, che si stava celebrando a Roma nella Basilica di San Pietro, allo scoppio della guerra franco-prussiana e per le conseguenze sulla politica italiana di espansione del Regno d’Italia.

Si può quindi immaginare con quale stato d’animo papa Pio IX abbia scritto questo documento. Anche perché c’è un particolare da far notare subito. Il decreto, infatti, non è firmato dal papa ma dal Prefetto della Sacra Congregazione dei Riti, il Cardinale Costantino Patrizi, vescovo di Ostia e Velletri, e dal relativo segretario mons. Domenico Bartolini. Il papa non volle porre la sua firma perché il governo italiano pretendeva la revisione e il controllo degli atti pontifici prima della loro pubblicazione. Pio IX volle evitare tale umiliazione, da lui ritenuta un sopruso. 

Papa Pio IX spiega così la scelta: Ora, poiché, in questi tempi tristissimi la stessa Chiesa, da ogni parte attaccata da nemici, è talmente oppressa dai più gravi mali, che uomini empi pensarono che finalmente le porte dell’inferno avevano prevalso contro di lei, perciò i Venerabili Eccellentissimi Vescovi dell’Universo Orbe Cattolico inoltrarono al Sommo Pontefice le loro suppliche e quelle dei fedeli alla loro cura affidati chiedendo che si degnasse di costituire San Giuseppe Patrono della Chiesa Cattolica.  Avendo poi nel Sacro Ecumenico Concilio Vaticano più insistentemente rinnovato le loro domande e i loro voti, il Santissimo Signor Nostro Pio Papa IX, costernato per la recentissima e luttuosa condizione di cose, per affidare Sé e tutti i fedeli al potentissimo patrocinio del Santo Patriarca Giuseppe, volle soddisfare i voti degli Eccellentissimi Vescovi e solennemente lo dichiarò Patrono della Chiesa Cattolica”. 

Nella lettura teniamo presente che siamo nel 1870 e quindi il linguaggio è solenne e un poco enfatico, ma è importante andare al cuore del discorso.
Il papa, innanzitutto, descrive in modo drammatico la sua situazione: la Chiesa è attaccata, circondata, oppressa, anzi qualcuno ne prevede anche la fine. Di fronte a questo stato di cose è arrivata al papa la richiesta da parte dei vescovi i quali chiedono che ci si rivolga a san Giuseppe proclamandolo patrono della Chiesa. 

E’ chiaro che il papa vede in questa richiesta dei vescovi una partecipazione alla sua situazione e una condivisione del momento tristissimo in cui la Chiesa si trova a vivere. La risposta del papa è del tutto ovvia e scontata, anzi corrisponde alla sua personale devozione a san Giuseppe. 

Il papa affida a san Giuseppe se stesso e tutti i fedeli, esprimendo una comunione profonda con tutta la Chiesa e chiedendo a tutti di condividere la scelta. 
Proclamare patrono san Giuseppe è proporlo alla Chiesa come degno di un culto particolare perché lo si designa quale speciale protettore e avvocato presso Dio. 

 

Il patrocinio di San Giuseppe

La riflessione su san Giuseppe pone le basi per una devozione profonda, senza smagliature ed è proposta a tutta la Chiesa, perché di tutti i fedeli san Giuseppe è custode.
Per questo mi sembra di cogliere un legame profondo tra la proclamazione del 1870 e la preghiera che in questi giorni rivolgiamo a san Giuseppe. 
Pio IX si rivolgeva a san Giuseppe perché difendesse la Chiesa da una peste di errori e di vizi, dal potere delle tenebre, da ostili insidie ed avversità e chiedeva a San Giuseppe: “difendici, proteggici, assistici, salvaci”.
Oggi insieme a papa Francesco preghiamo san Giuseppe per ogni uomo e per ogni nazione,  a lui chiediamo  di essere custode dell’esistenza, conforto nelle  angustie, sostegno nelle  difficoltà. Il “noi” di papa Francesco è tutta l’umanità, non solo la Chiesa. 
Chiediamo a san Giuseppe di essere custode della salute e di proteggere il mondo dalla pandemia che scuote la fiducia nel futuro e rende più fragile la speranza. 

p. Tullio Locatelli

IL TEMA DEL TEMPIO TRA PRIMO E SECONDO TESTAMENTO IN RIFERIMENTO A GESU’ E SAN GIUSEPPE
Per i 150 anni di san Giuseppe Patrono della Chiesa universale

 

Introduzione

Prima di affrontare la mia riflessione su: “Il tema del tempio tra primo e secondo testamento in riferimento a Gesù e a Giuseppe”, rivolgo un saluto fraterno al P. Tullio Locatelli, ai Giuseppini del Murialdo e ai i Padri Guanelliani a cui, quale salesiano, mi sento legato spiritualmente, alla Pia Unione del Transito di san Giuseppe, agli Oblati di san Giuseppe e alla federazione Italiana Suore di san Giuseppe. Inoltre a tutti i fedeli della Basilica di san Giuseppe al Trionfale e a coloro che mi ascoltano per via digitale. 

L’occasione m’è offerta dall’anniversario dei 150 anni che la Chiesa celebra per la proclamazione di San Giuseppe Patrono della Chiesa universale, voluta da  Papa Pio IX con il decreto “Quemadmodum Deus” dell’8 dicembre 1870. Tale evento notevole avviene in particolare per voi fedeli che celebrate anche l’anno giubilare del 50° anniversario d’elevazione a Basilica della vostra Chiesa, fortemente voluta da san Luigi Guanella che ne curò anche l’edificazione. L’importanza e l’attualità di tali festeggiamenti li possiamo sottolineare con le parole che san Giovanni Paolo II ha rivolto a tutta la Chiesa nell’Esortazione apostolica “Redemptoris custos” del 15 agosto 1989: “E’ certo che la figura di Giuseppe acquista una rinnovata attualità per la Chiesa del nostro tempo, in relazione al nuovo Millennio cristiano”.

Il rilievo della figura di san Giuseppe è legata alla sua paternità: egli è, sì, il padre legale di Gesù, ma n’è soltanto quello putativo e nei Vangeli non si legge nulla di lui. Egli rappresenta con Maria tutti coloro che nella vita cristiana sono chiamati ad una funzione esaltante nella vicenda carismatica di Gesù, anche se compiuta nell’umiltà e nel nascondimento. Il fascino di san Giuseppe si manifesta nella sua fedeltà silenziosa, nascosta, umile e quotidiana al progetto di Dio, ch’egli visse nei trent’anni trascorsi a Nazaret accanto a Gesù.

Esaminiamo ora il compito di tale Patriarca, e poniamo in luce alcuni momenti fondamentali della sua paternità in relazione all’attività compiuta nel Tempio, luogo centrale della vita religiosa d’Israele. Mi propongo di svolgere tale argomento in chiave biblica evidenziando alcuni aspetti che ritengo di rilievo: considerare la funzione del Tempio nella storia religiosa d’Israele (tra il primo e secondo Testamento), e porre in luce alcuni episodi della vita di Gesù e di san Giuseppe che si riferiscono a tale luogo sacro.  

 

La funzione del tempio nella storia della salvezza.

Il Tempio, in quasi tutte le religioni, è il luogo privilegiato dell’incontro con Dio, come in Israele lo era il Santuario che, nell’Antico Testamento, veniva chiamato la Tenda dell’alleanza e poi il tempio di Sion in Gerusalemme, il cui nome ebraico era ‘ohel mo’ed, cioè la “Tenda dell’incontro”, quale luogo della comunione  con Dio. La religione ebraica considerava Dio come il Signore della storia e di tutta la creazione, per cui la territorialità era il segno dell’elezione, dove Dio si manifestava in un “luogo particolare”, dopo la scelta d’un “popolo particolare”. Il rapporto fideistico d’Israele con il Signore maturò in seguito, ed il luogo sacro venne considerato la convergenza tra due realtà tipiche della religione: l’invisibilità e la vicinanza di Dio. L’arca, ad esempio, nella “Tenda dell’incontro”, che accompagnava gli israeliti nel deserto, era il simbolo del Signore nascosto e rivelato insieme. I santuari antichi di Sichem, Betel, Mamre, Ghilgal, Silo erano i memoriali dell’incontro di Dio con le vicende dei patriarchi. Re Davide, a “Colui che sono” (Es 3,14) decise d’edificare un tempio (2Sam 7,1-3), ma il Signore s’oppose.  Non fu infatti, quel re ad erigerlo, ma gli fu donato il carisma d’essere il capostipite d’una  “dinastia” (2Sam 7,4-17), anche se per Israele il luogo del culto sarebbe rimasto il “Tabernacolo”, perché Dio non s’adatta ad essere una copia servile dei culti pagani.

Tali luoghi sacri, in seguito, furono superati tutti dal Tempio di Gerusalemme, che divenne il centro del culto religioso, il luogo per eccellenza della  presenza e dell’incontro di Dio con il popolo ebraico. Il re Salomone, non per nulla quando consacrò il Tempio, sottolineò la trascendenza e la presenza di Dio con tale rivelazione: “Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco, i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruito” (Re 8,27).  Il tempio di Gerusalemme, in realtà, non divenne il luogo dove Dio abita, bensì quello dov’egli dal cielo si avvicina all’uomo, lo ascolta, lo salva e lo perdona, a condizione che egli lo cerchi per un incontro personale con il cuore sincero e penitente.

Il tempio di Gerusalemme anche per i profeti fu la sede dell’incontro con Dio, ma fu anche un luogo non privo d’ambiguità e di formalismo. Isaia, Geremia ed Ezechiele denunciarono con forza il carattere superficiale del “culto che vi si svolge” (Is 1,11-17; Ger 6,20), nonché le pratiche idolatriche introdotte da uomini che praticavano un culto vuoto e superstizioso. Tali deviazioni spiegano l’atteggiamento dei profeti che giunsero fino a predire l’abbandono da parte di Dio della dimora da lui scelta e la sua distruzione a causa del peccato del popolo (cfr Mi 3,12; Ger 7,12-15, Ez 9-10). Il Tempio di Gerusalemme, in realtà, rappresentò le vicende umane di quella nazione ed il suo destino quale popolo eletto, perché in esso vi furono alternate riforme religiose e tradimenti cagionati dall’infedeltà all’alleanza. Dio volle un culto vivo, sincero e personale, ricco di fede, di giustizia e d’accoglienza di tutti, anche dello straniero, pena l’abbandono del tempio da parte della “gloria del Signore” e la sua distruzione  (Ez 10,18).

Il tempio, nel periodo del post-esilio, ricostruito con magnificenza da Erode il Grande, rimase l’unico luogo del culto sacrificale, centro del giudaismo e meta di pellegrinaggio. Si fece strada, però, gradualmente una corrente di pensiero che evidenziò la necessità d’un culto più spirituale, meno correlato al tempio di pietra, e più corrispondente all’esigenze della “religione del cuore”, predicata specie dal profeta Geremia (Ger 31,31). Fra i giudei, oltre il tempio, acquistò importanza anche la sinagoga, come luogo d’ascolto della parola di Dio e della preghiera comunitaria, che suscitava una pietà sincera ed una vita religiosa rinnovata. La costituzione della setta di Qumran, ad esempio, che si separò dal sacerdozio e dal Tempio di Gerusalemme, poco prima dell’avvento di Cristo, fu in realtà un tentativo di dar vita ad un culto templare rinnovato e purificato nel nome di Dio.

Gesù, nel Nuovo Testamento, da giudeo qual’era, fu rispettoso del tempio, vi si recò più volte, ne approvò il culto, v’interrogò, v’insegnò, ne pagò il tributo e contestò il culto farisaico. Il tempio, per il Signore, fu la casa del Padre suo (Lc 2,49; Gv 2,16), quale luogo di preghiera, e s’adirò quando il cortile dei Gentili fu adibito a mercato e traffico di valute, onde decise di purificarlo, e ne annunciò la distruzione: “non rimarrà pietra su pietra” (Mt 23,38; 24,2 par.). Il velo del tempio, infatti, alla morte di Gesù, si squarciò e perdette, definitivamente, il carattere sacro di segno della presenza divina (Mc 15,38). Il tempio nuovo e perenne non sarebbe stato costruito più dalla mano dell’uomo, ma sarebbe stato il Corpo stesso di Gesù, dove Dio avrebbe stabilito la sua dimora tra gli uomini con un nuovo culto “in spirito e verità” (Gv 4, 23-24).  Il santuario Erodiano, come sappiamo, terminò d’essere la casa di Dio con la distruzione di Gerusalemme nell’anno 70 d.C.

 

Il segno della purificazione: Gesù, nuovo Tempio in Gv 2,13-22

Un episodio della vita di Gesù, secondo il vangelo di Giovanni, merita un’attenzione particolare. Esso è il segno della purificazione del tempio che dà l’avvio all’attività messianica di Gesù (Gv 2,13.22). Tale missione iniziò con il superamento delle istituzioni e delle concezioni religiose giudaiche. Avvenne un  passaggio dal vecchio al nuovo, dal provvisorio al definitivo, di cui la prima istituzione fu il Tempio, sede del potere religioso e politico del mondo ebraico. Gesù presentò se stesso quale Tempio nuovo, dove risplendeva la gloria di Dio sulla terra. Tale segno è narrato in tutti i Vangeli: i Sinottici, in particolare, lo collocano alla fine del ministero profetico di Cristo, mentre Giovanni lo pone all’inizio della sua vita pubblica e v’attribuisce un significto pasquale.

 Siamo nel tempo della festa di Pasqua e Gesù, da ebreo pio ed osservante, si recò al tempio di Gerusalemme per partecipare al rito liturgico di tale solennità. Fu in quell’occasione che s’imbattè nei mercanti di bestiame e nei cambiamonete, che, seduti ai loro tavoli, svolgevano il loro commercio e s’occupavano dei loro interessi.  Gesù constatò amaramente quale carattere profano aveva assunto la festa di Pasqua, per cui l’evangelista Giovanni ce lo presenta come un fustigatore di vizi e d’azioni malvagie, nel momento di compiere un gesto messianico preannunciato da testi profetici. Egli, Figlio del Padre, non gradì un culto esteriore, consistente in sacrifici e fondato sull’interesse personale (Am 5,21-24; Is 11,11-17; Ger 7, 21-26): “Non fate della casa del Padre mio una casa di mercato” (v.16), ma volle dagli uomini un culto dignitoso, sincero e spirituale.

Un aspetto essenzialmente dogmatico merita d’essere evidenziato dalle parole di Gesù: egli si proclamò Figlio di Dio per il quale adottò l’appellativo di Padre con riferimento al tempio d’Israele che chiamò casa del Padre suo. Gesù, quale Figlio, ne prese possesso e la purificò dagli interessi terreni di per sé stessi insufficienti ad onorarlo. Dio esige soprattutto un culto spirituale ed interiore da vivere nell’amore, secondo le esigenze dell’alleanza con il popolo eletto.

I presenti che assistettero a quel gesto di contestazione purificatrice gli chiesero un segno che desse la prova della sua autorità messianica: “Che segno ci mostri per fare queste cose?” (v.18). Gesù non accettò quella sfida e non compì alcun miracolo, ma s’appellò al “segno” più grande che avrebbe compiuto: la risurrezione: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” (v.19). Egli preannunciò  con tali parole la trasformazione del vecchio tempio con uno nuovo, edificato in tre giorni, mediante quell’evento strepitoso, rivelatore della sua divinità. Davanti all’incomprensione degli’interlocutori che obiettarono: “Questo tempio fu costruito in 46 anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?” (v.20), l’evangelista annota: “Ma egli parlava del tempio del suo corpo” (v. 21). Cristo risorto è il Tempio nuovo, il solo luogo della presenza salvifica di Dio fra gli uomini, il Tempio spirituale da cui sarebbe scaturita la vera sorgente: “fiumi di acqua viva” (7,37-39; 19,34).

Concludo la presentazione di Gesú sotto tale riguardo con il commento di H. Van Den Bussche: “Gesú non costruí un nuovo tempio, divenne lui stesso il Tempio, la presenza di Dio tra i suoi [...]. Giovanni non abbandona i suoi lettori presso le rovine del vecchio tempio: egli indica loro il nuovo santuario. Israele attendeva un nuovo tempio per il tempo messianico. La cristianità primitiva continuò nell’attesa o la credette attuata dopo la morte e la risurrezione di Gesú. A questa attesa Giovanni dà una soluzione originale: Gesú, il Messia, non sostituisce l’edificio materiale con una costruzione come l’attendeva la tradizione giudaica: il tempio piú grande e più sontuoso possibile per tutte le genti (Mc 11, 17). No, l’evangelista non pensa più a una nuova costruzione, accessibile a tutte le nazioni, né a un tempio celeste, tenuto in riserva presso Dio e che dovrebbe discendere dal cielo sulla terra alla fine dei tempi. Egli si guarda dallo spiritualizzare la concezione del tempio trasferendola, come Paolo, nella comunità dei credenti, sia una determinata comunità locale, sia la Chiesa universale o al corpo di ogni credente. Per Giovanni il nuovo Tempio, sempre attuale e duraturo, è il Corpo del Cristo risorto dai morti. Di qui Giovanni conserva la destinazione primordiale del tempio: il luogo della presenza di Dio tra il suo popolo. Altri autori, come Paolo, pur partendo dall’idea della inabitazione di Dio e dello Spirito di Dio, pensano soprattutto alla comunità o all’individuo che gode del beneficio della presenza di Dio. Per Giovanni, il nuovo Tempio, il Corpo di Cristo risorto, realizza la presenza stessa di Dio. Dietro il velo squarciato del tempio o attraverso il corpo martoriato di Gesù morente, Dio appare, senza interposizione di una presenza visibile e operante, in un corpo reale, umano, carico di gloria divina. Il sogno dell’Antico Testamento, il Dio con noi, eccolo realizzato per sempre in Gesú risorto”. 

 

La figura di Giuseppe nei racconti dell’infanzia in Mt 1,18-24; cfr Lc 2, 41-52

I testi scritturistici relativi a san Giuseppe sono esigui nei vangeli. L’evangelista Marco non parla mai di lui, e san Luca pone la figura di Maria a fondamento dell’infanzia di Gesù, mentre san Matteo si sofferma su Giuseppe della casa di Davide ed inscrive la genealogia di Gesù nella stirpe del re-Messia. Mi soffermerò, pertanto, su tale ultimo evangelista circa l’infanzia di Gesù, onde porre in evidenza il compito di Giuseppe con riguardo a quello da lui svolto all’inizio della storia della salvezza. 

Dev’essere detta subito una parola sui “Vangeli dell’infanzia” per comprendere bene il genere letterario particolare con cui furono scritti. Non si tratta, infatti, di semplici narrazioni, quanto piuttosto di testimonianze su Gesù, scritte alla luce della fede, anche se nascondono dei ricordi storici molteplici. Memoria e fede, storia e teologia sono inseparabili nei testi in esame; si tratta, infatti, di narrazioni provenienti dai circoli giudeo-cristiani, che facevano capo alla famiglia di Gesù. 

 La missione di Giuseppe all’interno dei due capitoli di Matteo (Mt 1-2) è legata  alla “genealogia di Gesù Cristo” che tale evangelista fa iniziare con Abramo ed essa ha il suo vertice nella storia dell’Alleanza tra Dio e il suo popolo. Giuseppe, con la sua appartenenza alla tribù di Giuda, diede a Gesù la discendenza davidica, per  cui il Figlio della Vergine Maria può dirsi veramente “figlio di Davide”. Il compito di Giuseppe, “lo sposo di Maria”, consistette, pertanto, nell’iscrizione di Gesù in tale discendenza, essenzialmente propedeutica alla missione che il Padre gli avrebbe affidato. Le stesse promesse messianiche trovarono compimento per l’opera compiuta da Giuseppe: la nascita di Gesù a Betlemme (2,1-6); la fuga in Egitto (2,13-15); il nomignolo di “Nazareno” (2,22-23) e così via. Giuseppe, in tutti gli eventi a cui partecipò, si dimostrò grande ed erede della fede di Abramo, perché la sua missione fu segnata dall’umiltà silenziosa nella casa di Nazaret.  

Giuseppe, nella narrazione della nascita di Gesù, ebbe un ruolo ed un compito particolare ed esterno: egli diede la paternità legale al nascituro e gl’impose il nome, mentre la Vergine Maria fu la protagonista del mistero dell’incarnazione: “Così fu generato Gesù; sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo” (1,18). Giuseppe, quale uomo “giusto”, davanti a tali eventi che Dio operò in Maria, “accettò il piano di Dio anche là dove esso sconcerta il proprio” (Maggioni). Egli non volle accusare Maria  manifestamente, ma pensò di ripudirla in segreto per non esporla al ludibrio pubblico. “Mentre però considerava queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore. E gli disse: ‘Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù; egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati’ ” (1,20-21). Dio entrò nella vita di Giuseppe e parlò all’uomo, ma l’angelo cosa gli disse in sogno? Lo invitò, anzitutto, ad aver fede: “non temere” e poi ad essere uomo d’azione “prendi con te il bambino e sua Madre e fuggì in Egitto” (2,13) e Giuseppe, destatosi, fece come gli era stato comandato l’angelo. 

Egli, “uomo dei sogni”, fu disponibile alla volontà di Dio, ed affidò la propria vita ad un progetto trascendentale. Ci rendiamo conto in tal modo della giustizia di Giuseppe, che fu un adempimento alla volontà divina accolta con piena obbedienza. Iniziò per lui una vita nuova e la scoperta di un senso più profondo del suo essere padre e sposo. San Paolo, nella lettera agli Efesini, ha scritto che il Signore diede all’uomo di partecipare all’unica paternità di Dio (cf Ef 3,15). “San Giuseppe manifesta ciò in maniera sorprendente, lui che è padre senza aver esercitato una paternità carnale. Non è il padre biologico di Gesù, del quale Dio solo è il Padre, e tuttavia egli esercita una paternità piena e intera. Essere padre è innanzitutto essere servitore della vita  e della crescita. San Giuseppe ha dato prova, in questo senso, di una grande dedizione” (Benedetto XVI, Primi vespri di San Giuseppe, 18 marzo 2009). Sarà lui, infatti, a dare a Gesù il nome presceltogli dal Signore e, quindi la dignità sociale, al figlio generato da Maria, colui che è l’ “Emmanuele”, il “Dio-con-noi”, che venne consegnato, pertanto, alla responsabilità e all’amore di Giuseppe. 

Secondo Matteo, iniziò per lui una seconda notte di prova, quando Erode il Grande, informato dai Magi del neonato “re dei giudei” (2,2), ordinò la strage dei bambini a Betlemme (2,16-18). Giuseppe, avvertito in sogno, adempì al suo compito di proteggere e di salvare il bambino, ed andò esule con Maria nella terra d’Egitto. Dirà papa Benedetto XVI: Giuseppe “per Gesù ha conosciuto la persecuzione, l’esilio e la povertà che ne deriva. Ha dovuto stabilirsi in un luogo diverso dal suo villaggio. La sua sola ricompensa fu quella di essere con Cristo” (Ibidem). La fuga in Egitto segnalò la prontezza dell’obbedienza di Giuseppe e lo fece emergere come padre di Gesù nel senso più profondo, perché lo custodì, lo protesse. Egli, infatti, prese con sé il bambino e Maria e divenne per loro un segno concreto e visibile, e quindi, il simbolo di quel Padre buono e misericordioso, di quel Dio che ha cura di tutti. 

Gli episodi successivi dell’infanzia di Gesù narrano di Giuseppe sempre al fianco di Maria, quale sposo premuroso, attento capo esemplare di quella “sacra Famiglia” in tutte le vicende umane, come il ritorno dall’Egitto nella terra d’Israele, la normalità della vita di Nazaret in Galilea, la presentazione del Bambino al tempio, l’episodio misterioso del suo smarrimento e del ritrovamento fra i dottori nel tempio. Maria e Giuseppe, per la vocazione ricevuta, furono una coppia del tutto consapevole d’essere compartecipe del disegno del Padre d’affidare al Figlio la redezione dell’umanità e di svolgere il loro compito nel silenzio operoso e solerte della vita familiare. Aver portato il figlio al tempio nel giorno della purificazione di Maria e della presentazione di Gesù (Lc 2,22-40), ed averlo deposto sulle braccia di Simeone ed Anna, che videro nel Bambino “la salvezza preparata da Dio davanti a tutti i popoli” (2,31), consentì loro d’essere il tramite dello Spirito Santo per preannunciare la missione salvifica che Gesù avrebbe svolto nel dolore, nell’isolamento e nell’incomprensione, fino alla morte di croce: “Anche a te una spada ti trafiggerà l’anima” (Lc 2,35). Quel Figlio da quel momento apparteneva al Padre e non era più di Maria e di Giuseppe, che venivano chiamati soltanto a condividerne la passione e la gloria. Qui sta il mistero della famiglia di Nazaret: la fedeltà a Dio, fino al dono di sé stessi, fece si che Maria e Giuseppe si fossero aperti all’esigenze dell’amore e del servizio universale per lasciar libero il Figlio, che si sarebbe dedicato soltanto alla causa del Padre e degli uomini. 

Ma venne anche l’ora in cui Gesù dodicenne prese coscienza di sé e sentì con urgenza la sua vocazione personale, quando Giuseppe e Maria lo portano a Gerusalemme per diventare “figlio del comandamento” (un bar-misvāh). L’episodio dello smarrimento di Gesù nel tempio (Lc 2,41-50) è ambientato in un pellegrinaggio per la Pasqua. Gesù con i suoi genitori salì a Gerusalemme, entrò nel tempio e, dopo tre giorni, venne ritrovato a colloquio con i dottori della Legge, stupiti per la sua conoscenza della Scrittura e per i giudizi espressi. Il senso della narrazione è racchiuso nell’interrogativo angoscioso di Maria e nella risposta di Gesù: “Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre ed io, angosciati, ti cercavamo. Ed egli rispose loro: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lc 2,48-49). 

Siamo di fronte ad un episodio epifanico, di rivelazione, dove troviamo la prima ed unica parola proferita da Gesù adolescente, che è nel Padre e ne realizza il disegno salvifico: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30), e più ancora: “Il Padre è in me ed io in lui” (Gv 10,38). Gesù è nel Padre perché, nell’obbedienza più piena del Figlio, è l’artefice della missione redentrice affidatagli. Egli, infatti, nel Tempio rivendicò con forza il primato dell’appartenenza a Dio, come “Figlio del Padre”, e la priorità della propria vocazione. Egli si stacca dai suoi genitori, per cui Giuseppe non è più suo padre, ma Dio è il vero suo Padre. E l’evangelista Luca rende palese tale sua dissociazione dalla famiglia terrena: “Essi non compresero ciò che aveva detto loro” (2,50). 

Giuseppe ormai aveva concluso il suo compito, e per lui iniziò il tempo del silenzio operoso, pur nella permanenza della sua condizione iniziale di sostenere Maria, anche spiritualmente davanti alla presenza di Dio tramite il suo Figlio Unigenito. Egli che non aveva generato Gesù secondo la carne, però contribuì, secondo il disegno di Dio, alla sua minifestazione di “vero Dio” nella natura assunta di “vero uomo”. Anche Maria, alla risposta di Gesù, non disse nulla, ma “custodiva tutte queste cose nel suo cuore” (2,51) perché davanti alla rivelazione del Figlio v’era posto soltanto per il silenzio, la meditazione e l’attesa. Quei genitori, dopo la disavventura dello smarrimento, che il “sensus Ecclesiae” attribisce spiritualmente alla diversità dei compiti: l’uno terreno e l’altro divino, ricondussero Gesù a Nazaret, che rimase loro sottomesso, crescendo “in sapienza, età e in grazia davanti a Dio e agli uomini” (2,52). E Papa Benedetto XVI aggiunge: “Il silenzio di Giuseppe, uomo giusto (Mt 1,19) e l’esempio di Maria che ‘custodiva ogni cosa nel suo cuore’ (Lc 2,51), ci fanno entrare nel mistero pieno di fede e di umanità della Santa Famiglia” (Angelus 30 dicembre 2012). La fede, anche per noi, non richiede subito che nella storia di Gesù si comprenda tutto immediatamente, bensì che ogni evento, insegnamento o precetto venga custodito nel nostro cuore.

 

Conclusione

 Abbiamo dato un sguardo rapido particolarmente ai due capitoli dell’infanzia di Gesù nel Vangelo di Matteo, secondo l’interpretazione teologica, che ci ha aiutato a comprendere meglio la vita silenziosa di Maria e di Giuseppe e quella quotidiana e anonima di Gesù, quale rivelazione d’un mistero umano e divino. La missione di san Giuseppe, quale sposo di Maria e padre putativo di Gesù, sono i motivi che hanno portato alla sua proclamazione di Patrono universale della Chiesa. Il Papa Leone XIII ha insegnato: “Le ragioni per cui il beato Giuseppe deve essere considerato speciale Patrono della Chiesa, e la Chiesa, a sua volta, ripromettersi moltissimo dalla sua tutela e dal patrocinio di lui, nascono principalmente dall’essere egli sposo di Maria e padre putativo di Gesù […] Giuseppe fu a suo tempo legittimo e naturale custode, capo e difensore della divina Famiglia […]. E’ dunque cosa conveniente e sommamente degna del beato Giuseppe, che, a quel modo che egli un tempo soleva tutelare santamente in ogni evento la famiglia di Nazaret, così ora copra e difenda col suo celeste patrocinio la Chiesa di Cristo” (“Quamquam Pluries”, del 15 agosto 1889 Leone XIII P.M. Acta” IX, 1890, 177-179).

Della figura di san Giuseppe e della “Sacra Famiglia” in generale, mi pare opportuno porre in risalto il loro profilo interiore e quale caratteristica distintiva, il silenzio contemplativo pieno di fede. Lascio in proposito la parola a san Giovanni Paolo II: “Il sacrificio totale, che Giuseppe fece di tutta la sua esistenza alle esigenze della venuta del Messia nella propria casa, trova la ragione adeguata nella «sua insondabile vita interiore, dalla quale vengono a lui ordini e conforti singolarissimi, e derivano a lui la logica e la forza, propria delle anime semplici e limpide, delle grandi decisioni, come quella di mettere subito a disposizione dei disegni divini la sua libertà, la sua legittima vocazione umana, la sua felicità coniugale, accettando della famiglia la condizione, la responsabilità ed il peso, e rinunciando per un incomparabile virgineo amore al naturale amore coniugale che la costituisce e la alimenta» («Insegnamenti di Paolo VI», VII [1969] 1268). (cfr n. 26). 

Condividiamo anche con Papa Benedetto XVI le parole sul raccoglimento interiore di San Giuseppe:  “Lasciamoci contagiare dal silenzio di san Giuseppe! Ne abbiamo tutti tanto bisogno, in un mondo spesso troppo rumoroso, che non favorisce il raccoglimento e l’ascolto della voce di Dio. In questo tempo di avvento e di preparazione al Natale coltiviamo il raccoglimento interiore, per accogliere e custodire Gesù nella nostra vita come ha fatto Giuseppe, l’uomo “giusto”.

   Questo patrocinio, diremo insieme a san Giovanni Paolo II, “deve essere invocato ed è necessario tuttora alla Chiesa non soltanto contro gli insorgenti pericoli, ma anche e soprattutto a confronto del suo rinnovato impegno di evangelizzazione del mondo e di rievangelizzazione in quei paesi e Nazioni dove la religione e la vita cristiana sono messi a dura prova”.

 Per queste ragioni mi piace concludere con la preghiera di Leone XIII a san Giuseppe, che faccio mia a nome di tutta la Chiesa: “Allontana da noi o Padre amatissimo, le minaccie che incombono sulla famiglia umana […] Assisti propizio dal cielo ogni uomo che lotta con il potere delle tenebre […] e come un tempo scampasti dalla morte la minacciata vita del bambino Gesù, così ora difendi la santa Chiesa di Dio dalle ostili insidie e da ogni avversità. Te lo chiediamo in comunione con tutta la Famiglia di Nazaret. Amen.

 

GZ