SAN GIUSEPPE NEGLI SCRITTI DEL MURIALDO

SAN GIUSEPPE 

(dal Carisma)
 
Cost. 5: «I confratelli riconoscono in san Giuseppe il loro modello e patrono.
Egli, nell'umiltà e nell'offerta totale di sé stesso, educò e custodì il Figlio di Dio vivendo, per Lui e con Lui, una vita ispirata a grande fiducia verso il Padre. 
I confratelli saranno riconoscenti al Signore per essere stati scelti a continuare nella Chiesa il suo spirito e la sua missione»
.

«... il nome di san Giuseppe brilla di amabile splendore in capo alla nostra congregazione e ci ricorda colui che la ispirò, la protesse e la protegge dal cielo, e ci presenta in sé stesso il modello su cui dobbiamo formare la nostra vita» (Spieg. Ristr., p. 39).

Questo brano, che indica san Giuseppe come «modello, patrono e titolare» (Car. IV) della congregazione, sintetizza una nostra storia e dice l'importanza che egli ha per la vita della congregazione, per lo stile che essa deve assumere e per lo spirito che la deve animare tanto da essere familiarmente chiamato il «nostro santo» (Spieg. Ristr., p. 42).

Non si poteva, quindi, «incontrare nome più adatto, patrono più propizio all’opera nostra» (Spieg. Ristr., p. 41 per la nostra congregazione dedita ai giovani artigianelli come san Giuseppe, «l'umile artigiano di Nazareth... che istruì il Creatore del mondo, fatto per amor nostro e sotto la disciplina del fabbro di Nazareth, umile artigianello» (Spieg. Ristr., p. 42).

«I confratelli riconoscono in san Giuseppe il loro modello» (Cost. 5), affermano le Costituzioni.

I testi della nostra tradizione insistono nel presentare san Giuseppe come esempio per il giuseppino.

Infatti san Giuseppe è «il modello su cui dobbiamo formare la nostra vita» (Spieg. Ristr., p. 39) e dal quale «dobbiamo prendere direzione ed esempio» (Il fine, p. 34). Di conseguenza «le virtù di san Giuseppe devono essere le nostre, ed i suoi ministeri devono essere i nostri» perché la congregazione, proprio sull'esempio di san Giuseppe, «ha... tracciato... il programma del suo essere e del suo operare» (Il fine, p. 34).

Nei documenti della congregazione, san Giuseppe viene presentato come modello di «ammirabili virtù» (Regolam., 6), come la castità (cf. Regolam., 128), la mansuetudine (cf. Dichiar., p. 38), la povertà (cf. Spieg. Ristr., p. 47), l’amore a Gesù e a Maria... (cf. Spieg. Ristr., p. 44), ma soprattutto vengono messe in risalto e richiamate maggiormente, come caratterizzanti la vita del giuseppino, l’obbedienza, la laboriosità, la missione di educatore, l’intimità con Dio.

Queste caratteristiche sono ben sintetizzate nell’art. 5 delle Costituzioni dove si legge: «San Giuseppe, nell’umiltà e nell’offerta totale di sé stesso (carità), educò e custodì il Figlio di Dio (educatore) vivendo, per Lui (lavoratore) e con Lui (contemplativo), una vita ispirata a grande fiducia verso il Padre (obbediente)» e sono poi richiamate espressamente nei contesti speifici delle Costituzioni.

Tutte queste virtù sono state vissute da san Giuseppe con uno «spirito... di umiltà e carità» (Regolam., 169), virtù caratteristiche della congregazione come espressamente, sintetizzando i testi della tradizione, afferma l’art. 6 delle Costituzioni: «Da san Giuseppe i confratelli impereranno soprattutto l’umiltà e la carità, virtù caratteristiche della congregazione» che costituiscono non tanto virtù a sé, ma la fonte di un particolare stile di vita. Questo significa che la congregazione «si deve informare dello spirito di san Giuseppe» (Il fine, p. 34).

Riferendosi alle virtù praticate da san Giuseppe si legge nella Spiegazione del Ristretto: «San Giuseppe seppe rimanersene oscuro l’intera vita in una bottega nell’esercizio di virtù, quanto più sublimi, tanto più ignorate dagli uomini...» (Spieg. Ristr., p. 42).

 

San Giuseppe obbediente

La prima virtù che caratterizza san Giuseppe è l’obbedienza: «... l’obbedienza... fu perfetta in lui, tanto che tutta la sua santità ebbe per base l’obbedienza» (Spieg. Ristr., p. 43); e ancora: «I confratelli coltiveranno con affetto e praticheranno con esattezza la santa ubbidienza, come quella virtù che... fu tutta propria di S. Giuseppe, fatto degno di essere padre putativo a Colui che fu obbediente fino alla morte, e morte di croce» (Dir. 1936, art. 144).

È un ritornello costante della nostra tradizione presentare questa virtù riferendosi all’esperienza del nostro Patrono: «Pertanto sia l’ubbidienza dei nostri Confratelli come quella di S. Giuseppe; vale a dire umile e semplice, perché fondata nella fede...; ilare e pronta, perché animata dalla carità...» (Dir. 1936, art. 145).

Ispirandosi a questo specifico testo, l’art. 22 delle Costituzioni dice: «Sull’esempio di san Giuseppe, i confratelli vivano l’obbedienza con umiltà, prontezza e semplicità...»; e l’art. 25, parlando di una obbedienza particolarmente gravosa, afferma che il confratello, obbedendo, «si sentirà più vicino a san Giuseppe, il quale, attraverso la sua difficile obbedienza, ottenne in dono lo stesso Figlio di Dio [cf. Mt 1,18-21]».

L’obbedienza di san Giuseppe nasce ed è sostenuta da «una grande fiducia verso il Padre» (Cost. 5). La fiducia in Dio e l’amore a Dio sono il fondamento dell’obbedienza per cui il giuseppino, sull’esempio di san Giuseppe, è chiamato a vivere «un’obbedienza pronta al suo volere... in spirito di fede» (Car. VI) e quindi sarà, come dice il Murialdo, «perfetta e ilare» (Ep., V,2284), «generosa e volenterosa» (Ep., III,1069) anche se a volte, è sempre il Murialdo che parla, essa «P.E.S.A.», e per questo deve essere «Pronta, Esatta, Semplice, Amorevole» (Scritti, II, p. 49). Il Regolamento del 1873 invita ad obbedire con «prontezza, alacrità ed esattezza» (n. 118).

Vissuta in questa prospettiva di fede e tenendo presente l’esempio di Cristo che «fu obbediente al Padre fino alla morte di croce» (Cost. 19), il Murialdo parla dell’obbedienza «come una grazia non come un peso. Obbedendo si è tranquilli in tutto: Dio lo vuole. L’obbedienza è la pietra filosofale che cambia in oro quanto tocca» (Scritti, IV, p. 190), grazia perché è partecipazione al mistero salvifico di Cristo, anche se porta il segno della croce.

Veramente «l’obbedienza è tutto» (Scritti, II, p. 189), scrive il Murialdo. Essa è fiducia, abbandono in Dio-Padre, umiltà, semplicità, amore; è gioia di realizzare il piano che Dio ha su ciascuno di noi; è convinzione che «quanto Dio destina per mezzo dell’obbedienza è veramente il nostro bene spirituale» (Ep., V,1547) perché Dio «fa tutto bene» (Ep., IV,2038). Allora l’obbedienza non va «mercanteggiata» (Ep., III,1069), ma vissuta con fede!

Obbedire, in definitiva, significa «riconoscere la bontà di Dio» (Scritti, IV, p, 138) ed «esercitare l’amore effettivo ed operativo» (Scritti, II, p. 114) verso il Signore.

 

San Giuseppe laborioso

La seconda caratteristica richiamata con insistenza nei testi della nostra storia e di cui «l’umile artigiano di Nazareth» (Spieg. Ristr., p. 42) è di esempio, è la laboriosità: «San Giuseppe fu artigiano e lavorò tutta la vita in un mestiere umile e silenzioso» (Scritti, VI, p. 314). Ogni confratello, quindi, deve «studiare l’imitazione del nostro santo... che condusse una vita laboriosa» (Dichiar., p. 84).

San Giuseppe «amò il lavoro» (Scritti, VI, p. 299) e «lavorò molto» (Spieg. Ristr., p. 115). Infatti «egli sostentò la sua e la vita di Gesù e di Maria con il lavoro delle sue mani; la sua vita fu laboriosa e tutta spesa per Gesù e Maria» (Spieg. Ristr., p. 42) tanto che «non lo si trova un istante inoperoso» (Spieg. Ristr., p. 48).

Il Murialdo, nei suoi scritti, presenta con particolare insistenza questa caratteristica del nostro santo: «San Giuseppe lavorò, lavorò bene.  Ci ottenga l’amore al lavoro e ci ottenga di lavorare bene» (Scritti, VI, p. 313), «con giustizia, con assiduità, con attività,… e con perfezione» (Scritti, VI, pp. 300-301) e con «purezza d’intenzione» (Scritti, VI, p. 313).

Le Costituzioni riassumono questa nostra tradizione dicendo: «Conservando nel loro cuore l’esempio di san Giuseppe, l’umile artigiano di Nazaret, i confratelli si impegnino in una vita laboriosa per guadagnarsi ogni giorno il pane con il sudore della fronte, e per procurare i mezzi necessari alla comunità e alle attività della congregazione» (Cost. 9), lavoro che consiste nei nostri impegni apostolici e di comunità.

Il giuseppino è chiamato, dunque, a lavorare e lavorare seriamente e responsabilmente. Dice l’art. 127 del Direttorio del 1936: «I confratelli si assoggettino pure di buon grado alla fatica, persuasi che è dovere di ognuno, qualunque grado abbia nella vita religiosa, guadagnarsi il pane col sudore della fronte, ossia lavorando incessantemente...».

La congregazione si deve caratterizzare quindi per «uno spirito di laboriosa attività» (Dichiar., p. 13) che «deve essere proprio di una congregazione tutta applicata al ministero delle anime e che porta il bel nome di S. Giuseppe, il laboriosissimo artigiano di Nazareth» (Spieg. Ristr., p. 37). In questo la congregazione deve primeggiare. Infatti essa intende «occupare l’ultimo posto e lavorare attivamente come se fosse al primo» (Dichiar., p. 1), perché «la sua tessera è: lavorare, lavorare, ma lavorare per il prossimo e per Dio, ma lavorare nell’umiltà» (Spieg. Ristr., p. 62), e questo vuol dire amare i giovani poveri. 

Sull’esempio «dell’oscuro e laboriosissimo artigiano di Nazareth», il giuseppino quindi non può vivere «inoperoso» (Dichiar., p. 13) e deve «accettare con piacere e riconoscenza» qualsiasi lavoro che gli viene affidato, anzi deve «mostrarsi indifferente» (Dichiar., p. 83) all’attività che gli viene richiesta. In congregazione, infatti, non c’è un lavoro migliore di un altro, ci sono semplicemente lavori diversi. Ciò che contaè «servire» (Dichiar., p. 84) con spirito evangelico «direttamente o indirettamente» (Dichiar., p. 13) i giovani per il loro bene. Dicono le Costituzioni che il confratello, «con spirito di abnegazione, presterà generosamente il servizio che gli viene richiesto a vantaggio dei giovani» (art. 49). Solo se si vive con questo spirito il lavoro, qualunque esso sia, sarà animato dalla «gioia» (cf. Dir.10).

E il lavoro fondamentale del giuseppino è l’educazione cristiana dei giovani che si esplica attraverso varie attività (cf. Cost. 46) le quali richiedono non semplicemente il compimento passivo dell’obbedienza, ma richiede nel confratello responsabilità creativa come afferma l’art. 46 delle Costituzioni: «La sensibilità apostolica e la scelta di vivere a contato con i giovani porteranno i confratelli ad intraprendere coraggiose iniziative e appropriati adattamenti perché l’azione educativa sia costantemente efficace».

 

San Giuseppe educatore

L’art. 5 delle Costituzioni dice che per vocazione specifica i giuseppini «saranno riconoscenti al Signore per essere stati scelti a continuare nella Chiesa lo spirito e la missione di san Giuseppe» che è quella di educatore. È un aspetto questo presentato in modo particolare dalla nostra tradizione e che viene richiamato nell’art. 50 delle Costituzioni: «Ispirandosi a san Giuseppe, educatore di Gesù, i confratelli amano vivere tra i giovani come amici, fratelli e padri...».

Lo spirito di questa missione è ben delineato in un testo della Spiegazione del Ristretto: «... come a Nazareth alla persona stessa di Gesù Cristo si ha a maestro la persona stessa di san Giuseppe, così qui da noi, ai rappresentanti di Gesù è conveniente preporre ad educatori i rappresentanti di san Giuseppe che siamo noi, suoi servi, amici e figli» (p. 42).

È bello e significativo questo rapporto, così evangelico, tra Giuseppe-giuseppini e Gesù-giovani nei quali dobbiamo vedere di «educare lo stesso Gesù Cristo fanciullo» (Dir. 1936, art. 379). Ricordiamo la parola del Signore: «Chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me» (Mt 18,5).

San Giuseppe, definito dalla nostra tradizione «educatore ottimo» (Dir. 1936, art. 367), è il modello del nostro essere educatori e quindi da lui dobbiamo «imparare i modi da adoperarsi in questa educazione, modi di cui il Padre Putativo di Gesù è sovranamente maestro» (Spieg. Ristr., p. 44). E il modo fondamentale ci viene indicato dalla nostra tradizione: «... saremo buoni educatori dei nostri giovanetti quando avremo imitato in san Giuseppe la carità immensa di cui ardeva il suo bel cuore» (Spieg. Ristr., p. 44), e quando, come san Giuseppe verso Gesù, avremo «tante sollecite cure e tante espressioni d’immensurabile affetto» (Spieg. Ristr., p. 42) verso i giovani.

«Carità immensa» ed «immensurabile affetto» trovano una esplicitazione nell’art. 370 del Direttorio del 1936: «San Giuseppe ebbe per Gesù una profondissima riverenza ed un amore purissimo e santissimo; visse tutto per Gesù; e con la massima sollecitudine per lui non cessò mai di lavorare, faticare e soffrire; egli, reputandosi indegnissimo del suo alto ministero, governava Gesù con mirabile sapienza, mansuetudine e dolcezza...». Di conseguenza «come san Giuseppe visse tutto per Gesù, così anche il confratello di S.  Giuseppe deve vivere tutto per i suoi fanciulli» (Dir. 1936, art. 389), una donazione fatta di rispetto, accoglienza, dolcezza, bontà, umiltà, e che spinge a soffrire e faticare per il bene dei giovani.  

Allora, proprio da san Giuseppe, «dobbiamo studiare quella sublimissima pedagogia che non si trova nei libri profani, e che si compendia tutta nella carità ardente di Gesù Cristo, per la quale sola, ad esempio di san Giuseppe, dobbiamo pensare, parlare ed operare» (Dir. 1936, art. 20).

Quindi «nella educazione ed istruzione dei giovanetti dobbiamo fare la parte di san Giuseppe verso il Bambino Gesù» (Dichiar., p. 38), riconoscendo nei giovani le membra stesse di Gesù Cristo…, felici di continuare fra i nostri poverelli l’invidiabile missione di san Giuseppe verso il divino fanciullo Gesù» (Ristr., art. 62/8), «missione umile e faticosa» (Dir. 1936, art. 366), «nobile e ardua» (Regolam., 179), ma preziosa per la salvezza di tanti giovani.

 

San Giuseppe contemplativo

C’è un altro aspetto particolare da sottolineare tramandatoci dal Murialdo: san Giuseppe visse in «contemplazione continua» (Dichiar., p. 45) nella vita quotidiana: «Giuseppe santifica e nobilita il suo lavoro continuamente indirizzandolo a Dio; il suo occhio è intento all’opera che compie la sua mano, ma il suo cuore è fisso e sollevato incessantemente a Dio, di cui adempie i voleri...» (Scritti, VI, p. 340) e così «univa all’opera la preghiera assidua» (Dir. 1936, art. 370).

Per questo il Murialdo presenta san Giuseppe come «modello perfetto e protettore della vita interiore» (Scritti, VI, p. 300). Scrive il nostro Fondatore: «San Giuseppe nella bottega di Nazareth esternamente piallava e segava, ma interiormente era raccolto, guardava Dio, seguiva le ispirazioni di Dio. Dio era presente nel suo cuore; la sua intenzione era di fare la volontà di Dio, di cercare la gloria di Dio, quindi: parlava a Dio; agiva per Dio; agiva bene come voleva Dio; soffriva perché Dio lo voleva. Da Dio partiva ogni pensiero, preghiera, lavoro; a Dio riferiva tutto» (Scritti, VI, p. 319).

C’è un altro bellissimo pensiero del Murialdo che sintetizza la vita mistica di san Giuseppe: «La casa di Giuseppe è un misterioso tabernacolo; le sue braccia sono una pisside; il suo petto è una patena su cui Gesù dormiva, ma vegliava per noi... Giuseppe ci insegna come tenere compagnia a Gesù, come amarlo, carezzarlo, pregarlo...» (Scritti, VI, pp. 358-359).

«Tutto per Gesù» (Scritti, VI, p. 300),tutto «per la maggior gloria di Dio» (Scritti, VI, p. 300) è lo spirito con cui si deve vivere il lavoro sull’esempio del nostro santo.

Le Costituzioni riprendono questa dimensione della vita di san Giuseppe e ci invitano ad imitarlo «nella sua costante comunione con Dio e con Gesù nel lavoro quotidiano» (Cost. 43). Le Costituzioni del 1940 dicono che la congregazione «professa quel genere di vita che congiunge l’orazione con il lavoro» (art. 5).

San Giuseppe «regola viva della vita contemplativa ed attiva» (Spieg. Ristr., p. 44), è esempio e stimolo per ogni confratello a «fare di tutta la propria esistenza una perenne liturgia offrendo sé stesso a Dio nel quotidiano lavoro con fede semplice e generosa» (Cost. 41).

«S. Giuseppe è per noi quel servo fedele e prudente che Dio ha preposto alla sua famiglia...» (Il fine, p. 34).  

Come nostro «padre tenerissimo» (Dichiar., p. 37) e «amatissimo» (Spieg. Ristr., p. 39), come «patrono primario» (Regolam. ,5) della congregazione, dobbiamo vivere in «amicizia e familiarità con lui», cioè dobbiamo essere «devotissimi» (Spieg. Ristr., p. 44).  

I confratelli, pertanto, invocheranno «con grande fiducia» (Regolam., 6) san Giuseppe «nelle cose spirituali e nelle cose temporali» (Dir. 1936, art. 19). Il mercoledì, «giorno a lui consacrato» (Regolam.,138) in modo particolare, sarà occasione per vivere e rafforzare la devozione al nostro santo.

Anche «la festa di san Giuseppe sarà solennissima nella congregazione e si celebrerà il 19 marzo coll’anniversario della fondazione della stessa congregazione» (Dichiar., p. 38).

Inoltre dobbiamo propagare «la sua efficacissima devozione» (Regolam., 6) tra i giovani, valorizzando «volentieri le occasioni che si presentano» (Dichiar., p. 39).

La Regola riassume tutti questi aspetti della tradizione e afferma: «I confratelli preghino con grande fiducia san Giuseppe per la soluzione di ogni problema e ne promuovano la devozione» (Cost. 43), «lo onorino e invochino spesso... in particolare il mercoledì, giorno a lui dedicato. In tale giorno si celebri in ogni comunità una messa per le necessità della congregazione» (Dir. 34). Inoltre, con «filiale fiducia», ricorrano a san Giuseppe, sposo e padre verginale» (Cost. 18) per vivere fedeli al Signore nella castità consacrata. 

Celebrino, poi, «con solennità e conveniente preparazione» (Dir. 36) la sua festa, il 19 marzo, che è anche il giorno della nostra nascita come giuseppini.

Secondo la nostra tradizione, san Giuseppe è sempre considerato all’interno della famiglia di Nazaret. Infatti la sua obbedienza e laboriosità, la sua missione di educatore e la sua vita contemplativa sono in relazione a Gesù e a Maria: con loro visse e per loro operò. 

Si legge nella Spiegazione del Ristretto: «... rammentiamoci che dove è capo san Giuseppe, quivi è la Sacra Famiglia, e che non vi sarebbe Sacra Famiglia senza Gesù e Maria. Vorremmo noi dunque separare Giuseppe dalle persone più care che egli abbia, anzi potremo noi concepire san Giuseppe senza Gesù e Maria? Dov’è Giuseppe, quivi sono il Pargoletto suo e la Vergine sua sposa; la sua vita non era che per loro; tutta la ragione della sua esistenza non era che per essere sposo all’una e padre putativo all’altro» (p. 48).

La famiglia di Nazaret assume, pertanto, un particolare significato nella vita della congregazione, anzitutto come «stile di vita povera e nascosta» (Car. VIII) e come «modello di amicizia e di carità» (Car. XIII) tra i confratelli così che la comunità possa vivere «dell’atmosfera stessa dell’umile dimora di Nazareth» (Spieg. Ristr., p. 53), tanto da «rappresentare la stessa santa famiglia» (Spieg. Ristr., p. 42).

La comunità intesa come famiglia ritorna spesso nei testi della nostra tradizione i quali parlano di «una buona e ben unita famiglia» (Spieg. Ristr., p. 32), di «una famiglia sola, unita, compatta, edificante per generosa carità» (Haec fratr., p. 65).

Le Costituzioni, riprendendo questo nostro spirito, dicono che ogni confratello deve impegnarsi «a trasformare ogni comunità in una famiglia simile a quella di Nazaret» (Cost. 6), e l’art. 30, riprendendo l’espressione del Regolamento del 1873 (n. 9), ripete che i confratelli devono impegnarsi «a fare della comunità una sola e ben unita famiglia simile a quella di Nazaret». 

Sempre nelle Costituzioni, all’art. 78, si trova la definizione della comunità che è vista sotto proprio questa luce di “famiglia”: «La comunità locale giuseppina è chiamata a formare una ben unita famiglia nella quale i membri vivono insieme come fratelli che si amano e si aiutano in unità di spirito e di azione» (cf. Cost. 32). Le comunità devono essere «altrettante figure della casa di Nazareth» (Spieg. Ristr., p. 42).

Proprio dalla famiglia di Nazaret nasce lo stemma della congregazione: «Lo stemma della congregazione è formato dalle lettere iniziali di Iesus, Maria, Ioseph - I. M. I. - dentro una linea ovale circondata da raggi. Esso richiama l’intima unione della famiglia di Nazaret» (La congregazione di san Giuseppe, in La Regola, p. 1).

I nostri documenti, con particolare forza, dicono che la congregazione perché sia fedele a Dio «è indispensabile che si mantenga vivo in essa, non solo il nome, ma anche lo spirito di S. Giuseppe» (Il fine, p. 35).  Egli, infatti, «è la regola parlante della congregazione nella quale tutto deve essere giuseppino e dalla quale deve esulare ogni cosa che non sia secondo il suo spirito» (Il fine, p. 34) perché «le istituzioni vivono e prosperano in virtù dello spirito che le ha create» (Il fine, p. 35).

Questa fedeltà deve essere vissuta con gioia e con riconoscenza: «I confratelli saranno riconoscenti al Signore per essere stati scelti a continuare nella Chiesa lo spirito e la missione» (Cost. 5) di san Giuseppe.

NB. Approfondimento

- E. REFFO, Vita del teologo Leonardo Murialdo…, pp. 253-254: La devozione a san Giuseppe.
- A. MARENGO, Contributi..., vol. IV, pp. 256-326: San Leonardo e la devozione a san Giuseppe.
- U. LOVATO, San Giuseppe nella spiritualità di S. Leonardo Murialdo, in Lettere Giuseppine2007, 1997, 5, pp. 151-176.
- GIOVANNI PAOLO II, esortazione apostolica Redemptoris Custos (1989). 
-P. OLEA, San Giuseppe negli scritti di san Leonardo Murialdo, in Lettere Giuseppine, 2007, 1, pp 30-62.

FRANCESCO, lettera apostolica Patris corde, (2020).